Federalismo: Masullo ricorda la”piemontesizzazione del Regno delle Due Sicilie dei record”

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Importante e significativo convegno, lo scorso 15 gennaio, presso la Sala Pirelli del Palazzo Pirelli di Milano –  sede del Consiglio della Regione Lombardia – sul tema “Federalismo fino all’ ultimo miglio”. Tra le relazioni è spiccata quella del professore Stefano Masullo, rettore Isfoa – libera e privata università di diritto internazionale dal titolo “Il federalismo oggi: attuabilità ed eventuali complicazioni”. Masullo che vanta grandi esperienze in campo economico e finanziario oltre che accademico. Qui un estratto del sui intervento basato sul riconoscimento dei record dell’allora Regno delle Due Sicilie.

Di Stefano Masullo*

Gli Stati italiani nel 1859, prima dell’unità: regno di Sardegna (con capitale Torino e territorio comprendente Piemonte, Liguria, la Savoia, Nizza, il Principato di Monaco e la Sardegna e unico Stato italiano ad avere una Costituzione dal 1848); regno Lombardo-Veneto (Stato satellite dell’Austria che era retta dalla monarchia asburgica ed il cui imperatore era Francesco Giuseppe. Aveva due governatori: uno civile, Massimiliano d’Asburgo fratello dell’imperatore e l’altro militare, il maresciallo Gyulai); Ducato di Parma (comprendeva i territori di Parma e Piacenza, era retto da Maria Luisa di Borbone); Ducato di Modena (comprendeva i territori di Modena, Reggio Emilia e Massa Carrara. Il sovrano era il duca Francesco V d’Austria-Este); Granducato di Toscana (il sovrano era il granduca Leopoldo II di Lorena. Pur non avendo una Costituzione, il paese manteneva una politica tollerante e le idee circolavano senza essere represse troppo severamente. Era l’unico Stato a non avere la pena di morte); Stato pontificio (comprendeva le regioni del Lazio, Umbria, Marche, le Romagne e una parte dell’Emilia. Pio IX era il papa-re ed il governo e tutte le amministrazioni erano monopolio del clero. Era un governo repressivo che aveva riempito le prigioni di liberali e democratici e non aveva dato impulso all’economia del paese) il Regno delle Due Sicilie (Il re era Francesco II, ma sino alla morte avvenuta proprio nel 1859, aveva governato il padre Ferdinando II. Il territorio comprendeva tutte le regioni meridionali ed includeva anche la Sicilia. I rapporti con questa regione che aveva più volte cercato l’indipendenza erano sempre tesi. Napoli con 445.000 abtitanti era la città più popolosa di tutta la penisola). Di questi Il regno delle Due Sicilie vantava i seguenti record: 1° Paese industrializzato d’Italia (circa 1.600.000 addetti su circa 3.130.000 complessivi: 51% degli addetti totali con il 35% di abitanti – 1861) [cfr: Censimento del Regno d’Italia, 1861]; maggior complesso industriale in Italia. Terzo Stato più ricco d’Europa (parigi 1860); primo al mondo a portare l’acqua corrente; prima ferrovia d’Italia  (Napoli-Portici); primo impianto di luci a gas nelle strade; primo ponte in ferro d’Italia (Garigliano); maggior industria navalmeccanica d’Italia: Napoli e Castellammare; prima flotta mercantile d’Italia (seconda in Europa dopo l’inglese); prima nave a vapore dell’Europa continentale, Ferdinando I, realizzato nel cantiere di Stanislao Filosa al Ponte di Vigliena, presso Napoli, varato il 27 settembre 1818; primo Transatlantico a vapore d’Italia (“Sicilia”, 1854);  primo Codice Marittimo Italiano (il Codice De Jorio, redatto nel 1781 per il regio governo da Michele De Jorio, giurista di Procida); prima Compagnia di Navigazione del Mediterraneo; terza flotta militare d’Europa (dopo UK e Francia); prima istituzione del sistema pensionistico in Italia (con ritenute del 2% sugli stipendi); primo statuto socialista del mondo (seterie di San Leucio); più basso tasso di mortalità infantile d’Italia; prime Legislazioni in Italia contro la tratta degli schiavi e contro il vassallaggio dei contadini; minor pressione fiscale di tutti gli Stati Italiani; prima galleria ferroviaria del mondo; primo telegrafo sottomarino dell’Europa continentale; Teatro San Carlo (1° al mondo); Osservatorio Sismologico Vesuviano (1° nel mondo); primo Stato Italiano per ricchezza (al momento dell’annessione le Due Sicilie avevano più del doppio in oro di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme: 445,2 milioni su 670 in totale); primi assegni bancari della storia economica; prima rete di fari con sistema lenticolare; rendita di Stato quotata nella Borsa di Parigi al 120%

IL PROBLEMA DEL FEDERALISMO IN ITALIA – È un quarto di secolo che in Italia si parla di riforme istituzionali volte a localizzare poteri e scelte, così da responsabilizzare cittadini e uomini politici. Qualche tentativo è stato fatto ma quella italiana rimane una Repubblica unitaria, ancorata al modello francese. Per quale motivo è tanto arduo tradurre in termini federali la struttura della penisola italiana, che pure agli occhi di Pierre-Joseph Proudhon appariva «per natura e configurazione federalista»?
Le ragioni sono numerose, ma con ogni probabilità il principale motivo sta nel fatto che è sostanzialmente impossibile trasformare un Paese centralizzato in uno davvero federale. Come nel caso della Svizzera e degli Stati Uniti, le autentiche federazioni sono nate da comunità politiche indipendenti che hanno deciso di associarsi, stipulando un patto. Al contrario l’Italia è sorta a seguito di una serie di guerre di conquista che hanno permesso alla monarchia sabauda di allargare i propri domini fino al Regno delle due Sicilie.
In seguito, è stato quasi inevitabile che si sviluppasse una cultura politica avversa all’autogoverno delle comunità: basti dire che nei suoi primi anni di esistenza l’Italia unificata vide il milanese Carlo Cattaneo scegliere l’esilio volontario, rifugiandosi in Ticino, e il Parlamento promulgare, nel 1863, quella legge Pica che affiderà alla repressione dell’esercito la difficile questione del brigantaggio e della resistenza  legittimista di chi, nel sud, si oppose alla «piemontesizzazione» delle comunità meridionali.

In questo quadro generale non stupisce che ogni rivendicazione regionale appaia debole. Da qualche tempo vanno chiedendo competenze alcune comunità del nord (la Lombardia, l’Emilia Romagna e soprattutto il Veneto) ma negli ultimi mesi si è passati da un rinvio all’altro. Le antiche battaglie autonomiste sono poco in linea con la nuova Lega sovranista e tricolore, che punta a rafforzare il suo potere a Roma vincendo le prossime elezioni con quel che rimane del centrodestra. Bisogna anche ricordare che oggi la Lega è un partito nazionalista invece che autonomista, maggiormente focalizzato sul tema dell’immigrazione che interessato alla difesa dei ceti produttivi.
Ne discende che la questione del riassetto istituzionale non è più al cuore del suo programma. C’è poi un dato strutturale che non va dimenticato. Dal punto di vista finanziario l’Italia si trova in una condizione difficilissima, con un debito fuori controllo e ombre oscure all’orizzonte, dato che un aumento dei tassi di interesse farebbe collassare i conti pubblici.
Considerando che oggi in Italia non esistono importanti partiti regionali (come nelle Fiandre, in Scozia, in Catalogna, in Corsica e via dicendo), è impensabile che da Roma si abbia una prima vera cessione di competenze alle regioni del nord, quale passo iniziale verso un assetto federale.
In effetti, un’autentica autonomia dovrebbe innanzitutto porre rimedio al fatto che nell’ultimo decennio circa 100 miliardi di euro hanno ogni anno lasciato Lombardia, Emilia Romagna e Veneto per sostenere i redditi del resto del Paese.
Se a Roma mancassero quelle risorse, il default sarebbe alle viste. La cosa più probabile, allora, è che la montagna partorisca un topolino. Soprattutto in Veneto, ma anche in Lombardia, vi è una forte attesa per la riforma autonomista e difficilmente Salvini potrà far finta di nulla. Al tempo stesso, la sua volontà di espandersi nel Mezzogiorno e ancor più le resistenze provenienti dai Cinquestelle ostacolano ogni vero cambiamento.
Qualche competenza alla fine sarà concessa ma senza autonomia fiscale e continuando a dipendere dalle (scarse) risorse redistribuite da Roma. Alla fine, come si può leggere ne Il Gattopardo, tutto cambierà perché nulla cambi davvero. E il federalismo resterà un miraggio.

IL SISTEMA ITALIANO ATTUALE – L’attuale sistema italiano non è un sistema federale bensì un sistema basato sul modello regionalista. Con il federalismo reale i governi locali rientrano nell’ombra esclusiva degli Stati federati, attuando un sistema solitamente dualistico articolato su due sfere: da un lato, il governo federale e, dall’altro, gli Stati federati (non le Regioni, con i loro governi locali). Viceversa il regionalismo poggia sempre su Stati unitari, come per il caso italiano: il governo centrale mantiene un rapporto con i governi locali, assicurando servizi primari su tutto il territorio nazionale in misura omogenea; mentre le Regioni svolgono la funzione strategica di coordinamento e programmazione delle attività sociali ed economiche. Ora più che mai è opportuno riconoscere la sostanziale inattuabilità del cosiddetto federalismo fiscale, in un quadro normativo completamente sganciato da realtà territoriali e regionali profondamente differenti e da basi imponibili inconciliabili con qualsiasi modello di equità fiscale.

LA REVISIONE COSTITUZIONALE – Si comincia nel 1997, quando arriva la riforma Bassanini – che in sé è molto buona e costituisce, nella storia del Paese, il terzo caso di decentramento dei poteri. Ma nel 2001 arriva perfino una riforma costituzionale del Titolo V approvata con una maggioranza ristretta e in modo frettoloso: una manovra politica fatta a fine legislatura per impadronirsi di un tema molto caro agli avversari, cioè la Lega. E proprio per questo, «fatta non bene».
Il dibattito sul federalismo investe un tema centrale delle riforme possibili dei prossimi anni. In un quadro in via di definitivo consolidamento, come dimostrato anche dalle risultanze dell’indagine conoscitiva svolta al riguardo dalla Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato nello scorcio iniziale della XV legislatura, è possibile mettere a fuoco con sufficiente chiarezza  obiettivi e politiche che consentano finalmente di realizzare pienamente le potenzialità del nuovo assetto istituzionale della Repubblica e gli eventuali correttivi da apportare alle disposizioni oggetto della revisione costituzionale del 2001.
Se da un lato si pone l’esigenza di dare compiuta attuazione alle disposizioni e ai principi contenuti nella nuova formulazione del Titolo V della Parte II della Costituzione, dall’altro emerge la necessità di modificare alcune delle disposizioni introdotte nel 2001, che in sede applicativa hanno evidenziato limiti ed aporie e, in talune circostanze, autentiche incongruenze.
Negli anni che hanno seguito la revisione costituzionale del 2001 si è riscontrato un significativo deficit attuativo di alcuni principi cardine del nuovo Titolo V, cui ha contribuito l’assenza nell’ambito della legge costituzionale di disposizioni attuative e di una disciplina che regolasse la transizione dal vecchio al nuovo sistema istituzionale.
Per quanto concerne la portata degli interventi di revisione, si è prevalentemente osservato come si ponga l’esigenza di porre limiti alla transizione infinita che sta attraversando il  Paese, evitando il continuo riesame delle regole del gioco e procedendo ad un numero limitato di correzioni ed integrazioni del dettato costituzionale, nell’ottica della “manutenzione costituzionale” tipica degli ordinamenti a carattere federale.
Non mancano opinioni di segno opposto, secondo le quali non sarebbero sufficienti interventi puntuali di revisione della Parte II della Costituzione, come quelli proposti nel corso della XV legislatura, in quanto la quantità e la complessità delle questioni da affrontare richiederebbe la definizione di un disegno di riforma più ampio ed articolato.
La tipologia degli interventi di revisione costituzionale si riflette ovviamente sugli strumenti giuridici e parlamentari con i quali essi dovrebbero essere realizzati. Nell’ottica di interventi di “manutenzione costituzionale” puntuali e ben definiti, infatti, si ritiene preferibile affidare, per quanto possibile, la revisione costituzionale ad una pluralità di progetti di legge “tematici” che, al loro interno, abbiano un contenuto organico ed omogeneo, secondo la direttrice seguita nel corso della XV legislatura.
La definizione di un progetto di riforma di più ampia portata richiederebbe invece l’individuazione di una specifica sede di discussione che potrebbe essere rappresentata da una Assemblea costituente o, comunque, da una sede parlamentare che sia sottratta alla quotidiana dialettica tra maggioranza e opposizione.

Quali sono i motivi alla base della mancata attuazione fino a questo momento dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione? – Per la mancata attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost., occorre considerare, per un verso, il modo in cui questa disposizione è stata scritta dal Parlamento, nel contesto della legge costituzionale n. 3 del 2001; e, per l’altro, le vicende istituzionali susseguenti all’entrata in vigore della riforma costituzionale.

La disposizione richiamata era stata elaborata come una forma di apertura speciale alle forze che reclamavano maggiore federalismo per le Regioni del Nord. Infatti, con un emendamento concordato in Commissione, senza una spiegazione delle ragioni per cui erano state scelte quelle materie di competenza esclusiva dello Stato, prende corpo la clausola di asimmetria. Se si ricostruisce l’iter del dibattito, ci si avvede che la clausola di asimmetria nasceva dall’intento di non espandere il novero delle Regioni speciali, come avrebbe voluto la Lega per il Veneto e per la Lombardia. Così, si affermò l’intento di consentire a tutte le Regioni ordinarie di ottenere “forme e condizioni particolari di autonomia”, nelle tre materie di competenza esclusiva statale cui il comma 3 fa rinvio e nelle materie della competenza concorrente. Di particolare significato era per la Lega la materia scolastica, mentre la materia ambientale e quella della giustizia di pace furono molto più una scelta dei Verdi, proponenti di un emendamento ampio, che delineava l’inserimento dell’art. 116, comma 3, anche della materia immigrazione e ordine pubblico, anch’esse pretese dalla Lega; e su questa impostazione si ebbe pure l’adesione di altre forze di centrosinistra.

Peraltro, nel breve dibattito che seguì alla presentazione dell’emendamento, si ebbe una distribuzione delle materie tra l’art. 116, comma 3, e l’art. 118, comma 3 (per l’immigrazione e l’ordine pubblico). Inoltre, non si ebbe alcuna contestazione per le materie “norme generali sull’istruzione” e “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, mentre per ciò che concerneva l’“organizzazione della giustizia di pace” vi fu una breve discussione tra chi paventava il pericolo di una frattura dell’“uguaglianza delle opportunità di diritto, sostanziale e procedurale, dei cittadini di fronte alla giustizia della Repubblica” (Valentini), e chi replicò, sottolineando il carattere organizzativo della competenza che poteva essere esercitata dalla Regione (Scoca).

Sostanzialmente mancò una riflessione di carattere sistemico su quello che avrebbe potuto comportare la previsione di forme di asimmetria nell’ambito del regionalismo ordinario e la disposizione serviva, almeno nella previsione di chi la propose, ad allargare il consenso politico e in vista di future alleanze di governo.

È gioco forza che una volta approvata la riforma e cambiate le alleanze di governo anche la clausola di asimmetria risentisse del cambiamento istituzionale tra la XIII e la XIV legislatura. Infatti, l’attuazione della riforma costituzionale si compie sotto l’egida di una maggioranza diversa da quella che l’aveva approvata e con un diminuito interesse federale da parte della Lega per via delle ben più impegnative responsabilità nazionali che quella forza politica assumeva.

Bisogna aggiungere, poi, che una volta soddisfatte le ragioni della moneta unica, da cui nascevano le spinte concrete verso una riforma in senso federalista, già anticipate dal federalismo a Costituzione invariata, con le leggi Bassanini e i relativi decreti legislativi, la riforma costituzionale apparve non solo ai commentatori politici, ma anche ad una parte della dottrina, come “eccessiva” e oltre ogni soglia accettabile, soprattutto per la legislazione. Chi visse quegli anni dell’attuazione della riforma, ricorderà che si paventava un disastro dell’ordinamento per opera dei legislatori regionali, per cui, da un lato, sia pure con ritardo, si ipotizzò un meccanismo farraginoso, mai realizzato, di raccolta dei principi fondamentali delle materie di competenza concorrente, desunti dalle leggi vigenti e con carattere meramente ricognitivo (articoli 1 e 4 della legge c.d. “La Loggia”, n. 131 del 2003); dall’altro, la Corte costituzionale con la sua giurisprudenza, pensò bene di mettere in campo, da subito, interpretazioni restrittive delle competenze concorrenti e di quelle residuali, legittimando altresì meccanismi derogatori delle competenze che avrebbero consentito al Parlamento e al Governo di intervenire nell’ambito delle competenze regionali, con l’onere dell’intesa tra Stato e Regioni nello svolgimento delle funzioni amministrative (sentenze nn. 282 del 2002 e nn. 303 e 370 del 2003, nonché n. 6 del 2004).

In un clima siffatto, nel quale le istituzioni centrali operavano per riprendere il controllo pieno della legislazione nelle competenze concorrenti e residuali delle Regioni, non era nemmeno immaginabile pensare di chiedere “forme e condizioni particolari di autonomie”, tanto più che – come già osservato – anche le stesse forze federaliste avevano abdicato a forme di maggiore autonomia in omaggio al loro impegno nel governo centrale.

Le prime iniziative regionali, sulla base dell’art. 116, comma 3, si hanno, per opera delle Regioni Veneto e Lombardia, solo quando si realizza un nuovo cambiamento di maggioranza, nel 2006, nel corso della XV legislatura, ma sono essenzialmente degli atti di rivalsa politica; tant’è che vengono prontamente abbandonate non appena, con lo scioglimento anticipato del 2008, nella XVI legislatura si cambia ancora una volta la maggioranza di governo e la compagine politica nazionale si allinea a quella regionale. In questa fase, peraltro, il dibattito si concentra di più sulla vicenda del federalismo fiscale che porta all’approvazione della legge n. 42 del 2009 e alla redazione dei numerosi decreti legislativi di attuazione, che – per effetto della crisi – sono rimasti sostanzialmente inefficaci o profondamente modificati dalla legislazione dell’emergenza.

Infatti, quando nell’estate del 2011 si rende manifesta la crisi economico-finanziaria, si farà strada nelle Regioni e nelle autonomie locali l’idea di dovere difendere nuovamente competenze e risorse, per cui diventava inimmaginabile potere aprire una trattativa con lo Stato su maggiori competenze di autonomia.

Va, però, dato atto alla Regione Veneto che, nel momento in cui, nel corso della XVII legislatura, si era pensato di consolidare il neocentralismo con la riforma costituzionale, dopo le modifiche della legislazione della crisi, di avere avanzato una proposta concreta nel marzo del 2016, sulla base dell’art. 116, comma 3, Cost., con una deliberazione della Giunta, che faceva seguito alla legge regionale n. 15 del 2014 e alla sentenza della Corte costituzionale n. 118 del 2015, con cui si promuoveva il referendum regionale sull’iniziativa dell’art. 116, comma 3, Cost. Con questa proposta la questione delle forme e condizioni particolari di autonomia diventa, da politica, istituzionale.

Quali sono le opportunità che offre attualmente l’attuazione dell’articolo 116, terzo comma? Quali invece gli eventuali rischi? – La richiesta di forme e condizioni particolari di autonomia, di cui all’articolo 116, comma 3, della Costituzione, inserisce elementi di dinamismo nel sistema regionale, completa il disegno regionalista avviato nel lontano 1970 e, successivamente, riconsiderato con le riforme amministrative e costituzionali degli anni 1997/2001. A certe condizioni può rafforzare l’intero sistema Paese attraverso una competizione virtuosa tra i territori regionali. La stessa solidarietà tra le regioni più avanzate e quelle più arretrate potrebbe realizzarsi secondo schemi nuovi e più efficaci se attuata attraverso il coinvolgimento diretto delle regioni e non, come oggi, solo attraverso il riparto operato al centro.

L’art. 116, comma 3, Cost., che consente di attribuire alle Regioni che ne facciano richiesta “forme e condizioni particolari di autonomia”, si muove all’interno del sistema di autonomia ordinaria disegnato dal Titolo V, secondo la revisione costituzionale del 2001. Anzi, si dovrebbe affermare che queste eventuali richieste di maggiore autonomia, per i campi materiali indicati, rientrino in un percorso o progetto di più compiuta concretizzazione dell’autonomia ordinaria che, nonostante sia tutt’affatto diverso dalle autonomie speciali, le quali – pur nella diversità che le contraddistingue tra loro – costituiscono, invece, una deroga all’autonomia ordinaria, autorizza a ritenere che il disegno di questa potrà dirsi realizzato realmente quando tutte le regioni, e non solo alcune, abbiano ottenuto la maggiore autonomia che la clausola di asimmetria consente. La qualcosa significherebbe anche che lo Stato regionale italiano avrebbe raggiunto un alto grado di maturità e, soprattutto, di omogeneità e che, con molta probabilità, il divario territoriale sarebbe realmente superato.

A tal proposito, non va dimenticato che l’art. 116, comma 3, Cost., introduce, grazie all’asimmetria, elementi di forte identità regionale e competizione territoriale, per la differenziazione che consente. Da questo punto di vista, questa disposizione costituzionale rappresenta un modo per spingere le altre Regioni ad assumere comportamenti più virtuosi e a seguire le migliori pratiche. Si consideri che il regionalismo italiano è tutt’altro che omogeneo, conoscendo Regioni che operano bene ed erogano buoni servizi e Regioni che hanno difficoltà a gestire funzioni e politiche pubbliche in modo soddisfacente. Di conseguenza, l’asimmetria non è un modo con cui il divario si accentua, ma semmai un modo nel quale può essere superato, consentendo anche di dare contenuti precisi alle politiche perequative dello Stato, valutando le gestioni in base ai risultati ottenuti con le risorse trasferite.

Nel suo insieme, perciò, l’asimmetria dovrebbe realizzare una maggiore efficienza finanziaria, non solo a vantaggio del territorio regionale interessato, ma dell’intero sistema.

Più che di rischi dell’asimmetria, poi, bisognerebbe parlare di limiti e condizioni che questa deve rispettare. Infatti, l’asimmetria, soprattutto nel momento in cui il processo si avvia, trova dei limiti nelle diseguaglianze che crea, le quali non possono andare oltre una certa soglia nell’ambito del sistema regionale nel suo complesso; ciò vuol dire che il parametro dell’esercizio delle competenze asimmetriche e del conferimento delle relative risorse finanziarie risiede essenzialmente nell’art. 120, comma 2, Cost., lì dove la disposizione costituzionale richiede che sia mantenuta “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.

Inoltre, sarebbe sottoposta al rispetto del libero transito dei beni e della libera circolazione delle persone e delle cose, nell’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale. In tal senso, non potrebbero esistere un Veneto dei veneti e una Sicilia dei siciliani.

Infine, le forme e condizioni particolari di autonomia non esonerano la Regione che le ottiene dall’obbligo di dare il suo contributo solidale alle altre Regioni e alla Repubblica. Le Regioni con maggiore capacità fiscale, infatti, devono dare alla perequazione territoriale una parte del loro gettito, anche se per quest’ultimo aspetto appare ormai maturo il tempo di sperimentare procedure più innovative, sulla scorta di esempi che derivano dalla comparazione, che facciano del coordinamento della finanza pubblica, non un limite da opporre alle Regioni, bensì una politica attiva cui le Regioni possano partecipare, al fine di rendere più efficiente la perequazione territoriale.

In conclusione, perciò, l’asimmetria non costituisce l’anticamera di una richiesta di secessione, che avrebbe solo fondamenti di fatto e privi di riscontro costituzionale. Infatti, l’asimmetria rappresenta solo un modo previsto dalla Costituzione per un regionalismo più consapevole e responsabile con effetti emulativi da parte delle Regioni, da cui i cittadini hanno tutto da guadagnare.

Da ultimo, resta aperta la valutazione del Parlamento nazionale, al momento dell’approvazione della legge con la maggioranza assoluta, sul profilo dell’unità e indivisibilità della Repubblica di cui all’art. 5 della Costituzione, che esula dai profili costituzionali dell’asimmetria, costituendo un principio di regime politico costituzionale. Di questa valutazione del Parlamento si dirà in conclusione.

Quali conseguenze comporterebbe l’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, in caso di attribuzione alla Regione di competenze legislative? E in caso di attribuzione di competenze amministrative? Come dovrebbe procedersi nel caso in cui si ritenga necessario tornare indietro rispetto all’attribuzione di maggiore autonomia? – Va innanzi tutto fatta una premessa, e cioè che l’art. 116, comma 3, Cost. richiede un forte approccio nazionale e, perciò stesso, unitario, dal momento che una autonomia consolidata può rivelarsi efficace e produrre risultati, solo in un contesto in cui si rafforzano anche i compiti riconosciuti al centro, soprattutto, verso l’esterno, nei confronti dell’Europa e delle sedi di negoziazione internazionale, ma anche verso l’interno. L’asimmetria non va vissuta come una spoliazione del centro.

In tal senso, è bene precisare che il regionalismo italiano e le autonomie locali si fondano, oltre che sulle motivazioni originarie che animarono l’Assemblea costituente – come la ricostruzione, il superamento della questione meridionale, la realizzazione della riforma agraria e la diffusione della democrazia – sull’attuale condizione in cui si trova la Repubblica. Questa, infatti, è caratterizzata da un sistema di internazionalizzazione dell’economia e, soprattutto, dal processo di integrazione europea, che rimane centrale, nonostante i particolari problemi funzionali e istituzionali che sono emersi nel disegno dell’Unione europea a seguito delle vicende della crisi finanziaria internazionale.

Il regionalismo e il riconoscimento delle autonomie, in questo contesto, diventano l’assetto istituzionale più idoneo, per consentire agli organi di governo dello Stato di proteggere gli “interessi nazionali” lì dove questi si confrontano con quelli degli altri Stati e di dedicare particolare attenzione a quelle negoziazioni internazionali ed europee da cui può derivare la loro salvaguardia.

Sul piano interno, inoltre, i compiti da riconoscere alle istituzioni statali (Parlamento e Governo) sono essenziali per una ripresa del Paese, per la crescita della sua ricchezza, per l’occupazione e per una collocazione competitiva nei mercati internazionali. Risulta chiaro, infatti, che le istituzioni statali, di fronte alle richieste di maggiore autonomia da parte delle Regioni ordinarie, sono chiamate anch’esse a migliorare le politiche di loro competenza e il loro ruolo complessivo, senza frapporre pretesti alle richieste autonomistiche e senza rincorrere il livello regionale su attività e politiche che, in un quadro di sussidiarietà, ben si confanno a questo.

Per essere più precisi, al centro compete la visione strategica del Paese, la quale peraltro dovrebbe essere condivisa dall’intero arco delle forze politiche, di modo che, a ogni cambio di maggioranza, non si veda stravolto il lavoro compiuto da quella precedente.

A ciò si aggiungano, oltre alle classiche funzioni statali rappresentate dalla feluca, dalla toga, dalla spada e dalla moneta (le cui materie sono: politica estera e rapporti internazionali; cittadinanza, immigrazione e condizione giuridica dello straniero; elezioni del Parlamento europeo; difesa e Forze armate; ordine pubblico e sicurezza; giurisdizione e norme processuali; moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; ecc.), alcune funzioni strutturalmente riconducibili al livello centrale, come la perequazione delle risorse finanziarie, anche attraverso l’uso di risorse aggiuntive o la realizzazione di interventi speciali per determinati territori, e – come si ribadirà anche in conclusione – la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica del Paese, in particolare con riferimento alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

Infine, da considerare è il ruolo che le istituzioni statali possono realizzare ai fini del raccordo istituzionale tra i diversi livelli di governo, sia per coordinare la realizzazione delle politiche pubbliche che richiedono una partecipazione dei diversi livelli di governo, sia per consentire alle Regioni di meglio partecipare alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea.

Quanto agli effetti che comportano il riconoscimento di forme e condizioni particolari di autonomia, occorre ricordare che la clausola di asimmetria direttamente concerne le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s). E quindi dovrebbe determinare un potenziamento della potestà legislativa concorrente delle Regioni e l’acquisizione della disciplina della materia nel caso delle competenze esclusive, sia pure entro parametri di carattere generale prescritti dalla legislazione statale.

Altrimenti detto, si genererebbe uno spostamento di competenze legislative per materie espressamente enumerate nei cataloghi costituzionali, mentre, sempre formalmente, resterebbero fuori della portata dell’asimmetria le materie di competenza residuale dell’art. 117, comma 4, Cost., che rivestono anche una certa importanza. In realtà, non tutte le materie concorrenti sono suscettibili di rientrare nella clausola di asimmetria, come il caso del “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, per via della previsione dell’art. 119 Cost., e quello dei “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni”, per le implicazioni di sistema che si desumono dall’art. 117, commi 5 e 9, Cost. Per contro, come si vedrà, le materie regionali di competenza residuale dell’art. 117, comma 4, Cost., possono fare parte dell’intesa sull’asimmetria. Per tutte le materie, peraltro, valgono i limiti che si desumono dall’art. 117, comma 1, e, oltre alla Costituzione, di particolare peso sono quelli derivanti dall’ordinamento europeo; basti pensare al riguardo alla disciplina della materia “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale”, per cui valgono le stringenti regole europee sulle banche.

Le competenze legislative, inoltre, si porterebbero conseguentemente le funzioni amministrative di riferimento, secondo quanto previsto dall’art. 118 Cost., le quali sottostarebbero, quanto alla loro allocazione, alle regole costituzionali indicate dalla medesima disposizione e, perciò, conferimento agli enti locali, secondo i principi di sussidiarietà differenziazione e adeguatezza, e sempre che non sia necessario mantenerle a livello regionale, per garantirne l’esercizio unitario.

Ciò che nemmeno l’asimmetria potrebbe consentire, in via di principio, è di procedere a una frammentazione delle materie della legislazione così come determinate dal legislatore costituente attraverso le enumerazioni; e, conseguentemente, non sarebbe dato alle Regioni di scegliere la disciplina esclusiva di solo una parte della materia, così come non sarebbe possibile determinare il campo dell’asimmetria legislativa regionale, partendo dalla richiesta di attribuzione di determinate funzioni amministrative, anche perché quelle inerenti alle materie dell’art. 117, comma 3, sono ratione materiae già tutte di spettanza regionale.

Tuttavia, una qualche frammentazione della materia, o un riferimento a funzioni amministrative pretese in modo espresso, deve ritenersi ammissibile per quelle materie che sistematicamente non risultano acquisibili in via esclusiva da parte della Regione, e cioè le tre materie di competenza esclusiva statale e le due materie di competenza concorrente del “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, e dei “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni” e per quelle limitate dal diritto europeo. Ovviamente anche l’esperienza dell’ordinamento potrebbe incidere sul modo di procedere nell’avanzare le richieste di “forme e condizioni particolari di autonomia”, nel senso subito appresso indicato. Resta fermo il principio, però, che il trasferimento delle materie debba essere quanto più pieno possibile, e il negoziato dovrebbe servire a ciò, in modo da evitare una duplicazione organizzativa per le medesime materie.

I vincoli di ordine formale che si desumono dal testo costituzionale, infatti, devono fare i conti con l’esperienza dell’ordinamento giuridico e con la particolare interpretazione giurisprudenziale data al riparto costituzionale delle competenze dal giudice costituzionale.

Il problema è derivato dalla circostanza che tutte le competenze regionali, concorrenti o esclusive/residuali, in questi anni, sono state sottoposte a una condizione di tensione, perché lo Stato ha legiferato non curante del riparto delle competenze dell’art. 117 Cost. e la Corte costituzionale ha interpretato quest’articolo della Costituzione attraverso una serie di clausole (chiamata in sussidiarietà; materie trasversali; materie-funzione; prevalenza dello Stato; intreccio di competenze; ecc.) che hanno reso flessibile il riparto e legittimato – sia pure entro condizioni particolari – gli spostamenti degli oggetti della legislazione a favore della legislazione statale (tra le più rilevanti, v. le sentenze nn. 282 e 407 del 2002; 303 e 370/2003; 6 e 14/2004; 198/2012, ecc.).

La legge di cui all’art. 116, comma 3, Cost., perciò, potrebbe avere l’effetto, particolarmente significativo, che, per le materie attribuite in via asimmetrica, le clausole di attrazione della competenza regionale, anche se compensate da procedure collaborative, non avrebbero effetto alcuno nei confronti della Regione interessata.

Inoltre, nonostante formalmente le “forme e condizioni particolari di autonomia” potrebbero essere richieste dalle Regioni con riferimento alle materie di competenza concorrente dell’art. 117, comma 3, Cost., alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento e per limitare l’efficacia delle clausole attrattive della competenza da parte dello Stato, non si può escludere che nell’intesa rientrino anche le materie dell’art. 117, comma 4, Cost., come l’agricoltura, il turismo, l’artigianato, il commercio, le attività produttive, l’urbanistica e l’edilizia, il trasporto pubblico locale, ecc., le quali in questo modo riceverebbero una protezione rafforzata, analogamente alle materie concorrenti, dell’art. 117, comma 3, Cost., fatte oggetto di attribuzione in via asimmetrica. Diversamente opinando, infatti, poiché la Corte costituzionale ha ammesso la possibilità per lo Stato di interferire sui poteri regionali dell’art. 117, comma 4, Cost. (sentenza n. 370 del 2003), nonostante il tenore della disposizione costituzionale richiamata dovrebbe radicalmente escluderlo, si incorrerebbe nel paradosso che l’asimmetria possa rafforzare la competenza concorrente, ma lasciare in balia dello Stato la altrettanto importante competenza esclusiva regionale.

Non è da escludere, però, che forme di coordinamento legislativo (e amministrativo) possano essere necessarie, nonostante la materia abbia formato oggetto di attribuzione asimmetrica, o sia stata rafforzata; ma, in tal caso, lo schema collaborativo dovrebbe essere diverso da quello sin qui proposto dalla giurisprudenza costituzionale e molto più simile a una negoziazione delle norme statali limitative, anche in via esclusivamente bilaterale.

Quanto, infine, ad un possibile ritorno alla legislazione statale delle materie che hanno formato parte dell’attribuzione di maggiore autonomia, sono percorribili due vie: una consensuale e l’altra unilaterale.

Sulla via consensuale potrebbero non esserci dubbi, in quanto la stessa Regione potrebbe riavviare il procedimento dell’articolo 116, comma 3, Cost., per chiedere allo Stato di riprendere, in tutto o in parte, la legislazione delle materie concorrenti e/o delle tre materie di competenza esclusiva statale. Tuttavia, a prescindere che sarebbe un fallimento della Regione, questa ipotesi non dovrebbe essere ammissibile, atteso che l’esercizio delle funzioni attribuite non può essere giuridicamente revocato in dubbio se non in via di fatto e che lo Stato così come le Regioni non possono esimersi costituzionalmente dall’ottemperare all’esercizio dei poteri e delle funzioni proprie.

Si può aggiungere, però, a parziale limitazione di quanto desumibile dal sistema costituzionale, che in Spagna durante la crisi economica si discusse a lungo sulla restituzione di competenze allo Stato centrale da parte delle Comunità autonome e, peraltro, si trattava di competenze molto impegnative come “la scuola” e “la sanità”; concretamente comunque non si addivenne ad alcuna modifica degli statuti in tal senso.

Più complessa appare l’ipotesi di un intervento unilaterale statale sulle materie che hanno formato oggetto di un’intesa per l’attribuzione della competenza asimmetrica. Infatti, dal punto di vista del sistema delle fonti non è possibile un intervento unilaterale, con un atto di legislazione ordinaria, che riassuma le competenze trasferite, atteso che a fondamento di queste sta un accordo tra Stato e Regioni.

Dal punto di vista sostanziale, se la legislazione regionale non determina un superamento dei limiti e delle condizioni dell’asimmetria medesima, non sussiste ragione perché lo Stato intervenga con la sua legislazione.

L’unica ipotesi nella quale si possa ammettere un intervento statale unilaterale è quella in cui si diano casi concreti in cui i limiti e le condizioni dell’asimmetria non siano stati rispettati, anche per un comportamento omissivo. Troverebbe in questa fattispecie, infatti, fondamento, sia pure con una procedura ispirata a principi di sussidiarietà e di leale collaborazione, l’esercizio del potere sostitutivo di cui all’art. 120, comma 2, Cost. Ovviamente, in tale ultima evenienza, che consente la verifica dell’uso delle competenze acquisite asimmetricamente, si porrebbe il problema se questi interventi non debbano implicare anche una valutazione del comportamento degli organi regionali alla luce del disposto dell’art. 126 Cost.

Da un punto di vista procedurale, come deve articolarsi il procedimento previsto dall’articolo 116, terzo comma? – Il procedimento prevede: 1) una iniziativa della Regione; 2) una consultazione con gli enti locali; 3) il rispetto dei principi dell’art. 119 Cost.; 4) l’intesa tra la Regione interessata e lo Stato; 5) l’approvazione della legge da parte delle Camere a maggioranza assoluta.

Ognuno di questi cinque momenti presenta dei problemi, dal momento che il nostro ordinamento manca di esperienza in questo ambito e le disposizioni costituzionali, entro limiti molto stretti, possono dare vita a soluzioni differenti.

Quali forme deve assumere l’iniziativa della Regione? – L’iniziativa regionale può avere due vie: la prima potrebbe essere a cura della Giunta e rivolta al Governo; la seconda, invece, derivare da un’iniziativa del Consiglio regionale, direttamente alle Camere, sulla base dell’art. 121, comma 2, Cost. (il Consiglio regionale “può fare proposte di legge alle Camere”); la Regione Veneto avrebbe messo in campo entrambe le possibilità. Infatti, già prima del referendum, con atto di giunta (DGR n. 315 del 15 marzo 2016) aveva adottato una proposta e l’aveva pure inviata al Dipartimento degli Affari regionali, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Subito dopo il referendum la Giunta ha presentato in Consiglio regionale una proposta di legge da votare per inviarla alle Camere (DDL n. 43).

Forse, se si segue il linguaggio della Carta, il termine “iniziativa” è sempre legato all’“iniziativa legislativa” e, in questo caso, in base all’art. 121, comma 2, dovrebbe intendersi una proposta di una legge statale, appunto, da parte del Consiglio regionale, attraverso la presentazione di questa alle Camere. Tuttavia, se si pone l’accento sull’intesa (“sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”), nel linguaggio dell’ordinamento, dovrebbe farsi riferimento ad una negoziazione e ad un accordo tra il Governo e l’esecutivo regionale. Tuttavia, non è mancato chi, sostenendo che l’intesa deve essere raggiunta sull’iniziativa (legislativa) di spettanza del Consiglio regionale, ritiene conseguentemente che l’intesa debba essere un accordo tra il Consiglio medesimo e le Camere, sulla falsariga di quanto accadeva con l’approvazione degli statuti regionali prima della revisione costituzionale del 1999.

Come e in quale fase deve avvenire la consultazione degli enti locali? – La consultazione con gli enti locali sembra prevista nella forma del parere obbligatorio, ma non vincolante. La questione da chiarire attiene al carattere della consultazione: se riguarda i singoli enti locali, oppure la loro rappresentanza in seno al Consiglio delle Autonomie locali di cui all’art. 123, u. c., Cost.; opzione, questa, che sembra più in linea con il disposto costituzionale che considera il Consiglio delle autonomie locali un “organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali”.

Quanto alla fase in cui la consultazione deve intervenire, due sembrano essere i momenti salienti: quello dell’iniziativa e quello dell’intesa. Formalmente la disposizione costituzionale prevede che l’iniziativa sia preceduta dalla consultazione (“su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, …”). Tuttavia, se si ragiona sistematicamente, non meno significativa dovrebbe essere la consultazione dopo la fine della negoziazione sull’intesa raggiunta. Infatti, l’iniziativa potrebbe subire anche considerevoli modifiche nel corso delle trattative, che potrebbero vanificare il contenuto del parere degli enti locali.

Quali elementi potrà disciplinare la legge statale dopo l’intesa fra lo Stato e la Regione? – L’approvazione della legge da parte delle Camere a maggioranza assoluta serve a rivestire di forma legislativa l’intesa raggiunta sull’iniziativa regionale. Sia che l’intesa venga considerata di spettanza del Governo e della Giunta, sia che sia ritenuta di competenza del Parlamento e del Consiglio, non si darebbe per le Camere la possibilità di emendare l’intesa e la legge di approvazione sembrerebbe da considerare una legge meramente formale, nel senso che le Camere possono approvare a maggioranza assoluta, o non approvare (o non raggiungere la maggioranza assoluta sul)l’accordo; nel primo caso si avrebbe il trasferimento delle competenze e delle risorse, nel secondo, invece, il sistema delle competenze non verrebbe innovato. La medesima fonte può anche essere considerata atipica e rafforzata: atipica, perché avrebbe ad oggetto di deliberazione l’intesa raggiunta; rafforzata, in quanto il procedimento prevede l’approvazione delle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.

Occorrerebbe in proposito approvare una legge di attuazione? – L’idea di una legge di attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost., era balenata già nella XV legislatura, in cui il Consiglio dei Ministri aveva approvato, il 21 dicembre 2007, uno schema di disegno di legge in proposito; ma bene si è fatto a non presentarlo.

L’art. 116, comma 3, Cost., come si è già osservato, disciplina una fonte legislativa atipica e rinforzata, per cui sarebbe un fuor di luogo una legge ordinaria di attuazione di una legge del genere. Non va dimenticato, infatti, che il sistema delle fonti primarie si deve considerare chiuso a livello costituzionale, per cui non residua alcuno spazio di disciplina per dette fonti da parte di fonti pari o sotto ordinate. Ad ogni buon conto si può aggiungere che la fattispecie dell’art. 116, comma 3, Cost., appare completa in tutti i suoi elementi.

Cosa implica il richiamo al rispetto dei principi del federalismo fiscale? – Il rispetto dei principi dell’art. 119 Cost. può essere inteso, non solo nel senso che le forme e condizioni particolari di autonomia richieste, dal punto di vista finanziario, siano in armonia con “i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, ma anche che la finanza regionale abbia un “bilancio in equilibrio” e che le funzioni ulteriori abbiano una copertura adeguata. Sembra potersi dire che sia necessario, perciò, che la Regione abbia: un debito pubblico più che sostenibile; una capacità fiscale adeguata; un sistema tributario che non abbia esercitato tutta la pressione fiscale; una finanza locale equilibrata; e, ovviamente, l’assenza di piani di rientro o di forme di commissariamento statale. Inoltre, a fronte di queste condizioni, si apre l’altra questione della fiscalizzazione, o meno, delle ulteriori risorse che lo Stato deve trasferire, a fronte delle competenze asimmetriche.

Quali sono i possibili sviluppi delle iniziative avanzate dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna (delibere dei consigli regionali di Lombardia ed Emilia-Romagna, progetto di legge statale del Veneto)? – Le iniziative regionali apparse nel corso dell’ultimo anno sull’art. 116, comma 3, Cost. sono alquanto diverse tra loro e a uno stadio differente di elaborazione. Certamente più avanti è l’iniziativa del Veneto, la cui proposta di legge è stata approvata dal Consiglio regionale, ma non presentata alle Camere, bensì consegnata dal Presidente della Giunta regionale al Presidente del Consiglio dei Ministri.

Quanto alla Lombardia e all’Emilia Romagna siamo in presenza di due risoluzioni del Consiglio regionale che impegnano il Presidente della rispettiva Giunta ad intraprendere il negoziato per giungere all’intesa con il Governo. Entrambe le risoluzioni contengono delle indicazioni con riferimento alle materie e alle funzioni che si richiedono.

Non è possibile in questa sede e al momento potere considerare compiutamente tutte le singole richieste articolate nella Proposta veneta e nelle risoluzioni lombarda e dell’Emilia Romagna.

La maggiore differenza non di carattere formale che sussiste sembra darsi con riferimento ai profili di cui all’art. 119 Cost., che mancano nelle risoluzioni o sono accennate con riferimento più ad aspetti istituzionali che economico-finanziario; mentre nella proposta di legge del Veneto sono avanzate come pretesa di gettito i nove/decimi delle principali imposte erariali, cui si accompagnano altre specifiche disposizioni su particolari imposte e altre ancora riferite alle risorse di fondi rotativi nazionali che verrebbero segmentati regionalmente e separati dal resto del fondo, in modo che i contributi versati nel fondo da parte delle imprese regionali in nessun caso possano essere utilizzati da parte di imprese di altre parti del territorio.

La richiesta del Veneto, per quanto comprensibile in ragione della concorrenza realizzata da parte delle contermini Province autonome e della Regione Friuli Venezia Giulia, non considera che le Province e le Regioni speciali hanno, non senza aspre critiche che ormai durano nel tempo, una finanza in deroga, che prescinde dal contesto normativo e funzionale, mentre le Regioni ordinarie, anche nel caso delle forme e condizioni particolari di autonomia, sono subordinate in modo espresso ai principi dell’art. 119 Cost.

In ogni caso questo profilo dell’art. 119, che interferisce con le negoziazioni dell’art. 116, comma 3, e con l’iniziativa delle Regioni ordinarie, costituisce uno degli aspetti precipui, ma non l’unico, della valutazione che il Parlamento nazionale deve compiere con riferimento all’approvazione della legge che riveste l’intesa raggiunta tra la Regione il Governo.

La negoziazione del Governo e il ruolo del Parlamento nazionale di fronte all’iniziativa regionale in base all’art. 116, comma 3, della Costituzione. – La prima considerazione conclusiva riguarda la presumibile negoziazione dell’intesa tra le Regioni e il Governo. Sarebbe, infatti, opportuno che tutta l’attività governativa nell’ambito dell’art. 116, comma 3, fosse preceduta da una risoluzione delle Camere, predisposta magari dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali, possibilmente di concerto con la Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, che possa indicare alcune coordinate della negoziazione. In primo luogo, quella di mettere in linea le competenze comuni alle richieste delle Regioni, rendendo così omogenei gli spazi normativi da trasferire e le relative funzioni pretese, nonché applicando i medesimi parametri di calcolo delle risorse.

L’iniziativa, di conseguenza, riguarderebbe in un primo momento solo questa parte del trasferimento di competenze, di modo che anche la riduzione di costi e funzioni dello Stato sia percepibile.

In secondo luogo, se è vero che il nodo del regionalismo asimmetrico resta quello del regionalismo, in quanto tale, e cioè determinare un equilibrio territoriale, grazie alla collaborazione tra il centro e i territori, occorre sottolineare come la clausola di asimmetria troverebbe applicazione nell’ambito del principio unitario, della “Repubblica una e indivisibile”, nel quale l’unità è determinata non dalla quantità di competenze che si esercitano, ma dal regime politico.

Da questo punto di vista, allora, occorre riflettere se una complessa domanda di autonomia, di per sé legittima, che riguarda le grandi Regioni contermini del Nord non possa suscitare delle perplessità.

Infatti, le tre Regioni, che hanno manifestato un interesse per una maggiore autonomia, cumulano (dati 2016) un po’ meno di un terzo della popolazione (19.350.000), ma un po’ più del 40% del PIL nazionale (658.359 mil.) e il 54,3% delle esportazioni (226.425 mil.).

Di qui le preoccupazioni che possono discendere dalla formazione di un blocco territoriale del nord, rispetto al quale lo Stato centrale non può certamente rispondere negando ogni validità alla pretesa di maggiore autonomia regionale, bensì governando questo processo; a tal fine dovrebbe assicurare il contesto unitario, migliorando  e intensificando gli interventi di perequazione territoriale (ex art. 119, comma 5, Cost.), ma al contempo dovrebbe stimolare la crescita autonomistica delle altre Regioni italiane e, qualora queste non dovessero corrispondere ad una maggiore assunzione di responsabilità, mettendo in discussione “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” eventualmente azionando i poteri sostitutivi nei loro confronti.

*Scrittore
Rettore Isfoa – libera e privata Università di diritto internazionale

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