Jihad, allarme Polizia Penitenziaria: “Radicalizzazione in carcere ma noi senza strumenti” – VIDEO

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Il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria sente sulla propria pelle (che è quella degli agenti) il peso della gestione in carcere della popolazione islamica reclusa “tendente alla radicalizzazione jihadista”. Per approfondire un tema di scottante attualità, il Sappe ha tenuto il 10 aprile al Grand Hotel Salerno un convegno molto partecipato. A Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe, l’onere di introdurre il dibattito: “I detenuti in Italia sono oltre 58mila; gli stranieri sono quasi 20mila: il 35% del totale ma in alcuni penitenziari del nord si arriva all’80%. Di questi circa 12mila sono di religione musulmana i cui riti sono seguiti da circa 5mila detenuti”. Risultano essere oltre 500 persone monitorate per radicalismo e proselitismo islamico: di questi almeno per 150 esiste un ‘alto rischio’ di radicalizzazione. “Vi sono dei segnali che gli agenti hanno imparato a riconoscere e ad interpretare” spiega Martinelli: “Se un detenuto diventa un integralista che prega cinque volte al giorno tanto da farsi venire in fronte il ‘callo della preghiera’ perché picchia per terra a dimostrazione della conversione a questa forma di fondamentalismo, che non vuole essere toccato da coloro che definisce ‘impuri’, ci accorgiamo che il percorso è avviato”. Il fronte della discussione si apre e Leonida Primicerio, Procuratore generale presso la Corte d’Appello a Salerno, attraverso più parallelismi con gli anni di piombo dell’eversione, del terrorismo e della camorra, lancia una forte provocazione: “Il carcere cieco, di mera repressione, rischia di amplificare piuttosto che ridimensionare il fenomeno. La bilancia tra tutela dell’ordine pubblico e delle garanzie oggi propende più verso la repressione, verso l’arresto per finalità preventive piuttosto che ad esito della commissione provata di reati. Siamo certi che la criminalizzazione del fenomeno e dei suoi attori non finisca per esasperare questo mondo e quindi per accrescere la forza di reattività violenta verso il sistema che rifiuta e arresta?”. Tocca quindi a Donato Capece, segretario generale del Sappe, interpretare il fenomeno ed approfondirlo dal punto di vista degli agenti di polizia penitenziaria: “Indagini condotte nelle carceri di Italia, Francia e Regno Unito hanno rilevato l’esistenza di due allarmanti fenomeni legato all’integralismo islamico: la radicalizzazione di delinquenti comuni per lo più di origine maghrebina e l’imposizione della legge islamica ‘sharia’ da parte di gruppi di detenuti fondamentalisti che, in aggiunta, vietano il consumo di carne di maiale e l’ascolto della musica di intrattenimento. Il pericolo della ‘conversione’ è dietro l’angolo. In Italia, per cercare di fronteggiare il radicalismo ed a scopi preventivi, è stato istituito il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo. Il CASA ha affermato che la radicalizzazione si diffonde proprio nelle carceri. Oggi risultano 506 persone radicalizzate in carcere di cui 242 sono detenuti di ‘primo livello’, ovvero arrestati per terrorismo internazionale (62 rispettivamente ristretti nelle misure di 26 nel carcere di Sassari, 19 in quello di Rossano e 11 in quello di Nuoro) o attivi nel proselitismo; 114 di ‘livello medio’: persone ritenute vicine alla ideologia jihadista; 150 di ‘basso livello’, potenzialmente radicalizzabili”. Ma come fa l’agente penitenziario ad accorgersi del subdolo pericolo? “Sono 23 – continua – gli indicatori codificati dalle Autorità europee racchiusi nelle quattro fasi del processo di radicalizzazione: la pre-radicalizzazione; l’identificazione; l’indottrinamento con isolamento volontario; la manifestazione vera e propria. Senza adeguata preparazione è comunque indubbia la difficoltà nel distinguere la pratica religiosa legittima musulmana da quella istigatrice che porta alla violenza”. A fronte di un fenomeno così complesso “poche sono le iniziative di contrasto adottate dall’amministrazione penitenziaria e sostanzialmente inesistenti sono gli strumenti forniti alla polizia penitenziaria, sulla quale pesa la mancata formazione”. Chiude riportando l’allarme lanciato dalla Cia: “Può essere possibile solo mitigare, non prevenire, l’uso terroristico delle prigioni”. Importante quindi il contributo della salernitana Maria Luisa De Rosa, direttore dell’Ufficio Affari legali del Ministero della Giustizia. Nell’approccio con gli islamici “il poliziotto penitenziario vive una contraddizione professionale tra la funzione rieducativa, esplicata nel non impedimento della libertà religiosa in senso lato e nella non ghettizzazione anche del detenuto segnato dal ‘callo della preghiera’ e quella di controllo. Deve rispettare l’espressione religiosa costituzionalmente garantita ma intervenire quando essa sfocia nel proselitismo che può portare al terrorismo. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria perde molte cause per questo motivo e per i suicidi paga diversi milioni di euro ogni anno. Finora il Dipartimento non ha disciplinato questa materia perché non è facile farlo: anche il Papa quando parla dell’Islam è molto cauto. Varare una circolare che poi non sia ben interpretata potrebbe creare un incidente istituzionale con potenziali ribellioni da tutto il mondo religioso”. Tema caldo nel quale irrompe con forza Giuseppe Tiani, segretario generale del Sindacato Italiano Appartenenti Polizia (Siap): “No, non possiamo lasciarci condizionare: il nostro è uno Stato democratico che consente la libertà di culto ed in cui una agente deve poter perquisire una donna islamica con capo coperto. Evitiamo che le pubbliche amministrazioni si crogiolino sulla potenziale lesione della libertà di culto: no, ci dobbiamo invece preoccupare se queste persone possano condizionare le funzioni attribuite dalla Costituzione alle Forze di Polizia. E’ necessaria, in tal senso, una evoluzione culturale della dirigenza pubblica. E’ chiaro che se un livello di civiltà conquistato in 2.500 anni si scontra con la barbarie di persone che vivono allo stato brado, vengono in Italia, sono arrestate e pensano di condizionare il sistema-Paese, non potrà esserci condivisione”.

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