Il processo endemico di gentrificazione ha caratterizzato il dopoguerra italiano. Allorquando, gradualmente, determinati ceti sociali si insediavano in palazzi, quartieri, quadranti delle città disposti ad accoglierli. Fenomeno governato dalla politica e dalle istituzioni con, ben chiaro, l’obiettivo di medio-lungo termine. Così perlopiù meridionali e abruzzesi si spostavano in massa a Roma, a Milano, a Torino, nella Pianura padana, nel nord est produttivo. Lavoravano, guadagnavano e, più o meno, si integravano. Tanto che le seconde e terze generazioni, nei paesi di origine dei padri/nonni ci tornavano in vacanza per le feste di Natale o per i bagni d’estate. Ma anche per ristrutturare le case di origine. Per non perdere, anzi per rafforzare, quel filo della memoria che unisce terre e uomini.
Italiani su italiani. Così, negli anni in cui Rai, scuola pubblica nazionale, autostrade e ferrovie contribuivano ad accorciare le distanze culturali e geografiche, i tassi demografici (e di benessere) erano in crescita. Fino ai 56/57 milioni di abitanti.
La sovversione economica scaturita dalla globalizzazione, in uno con l’introduzione della moneta unica e con gli stringenti vincoli europei (introdotti in Costituzione), dagli anni ’90 hanno spostato altrove le occasioni di lavoro. E con esse si sono spostati i flussi di giovani italiani in cerca di occupazione.
La conseguenza è stata disastrosa quanto silenziosa. Come le lacrime dei genitori impotenti che oggi accompagnano i figli non più alla stazione ma all’aeroporto. “Un milione di giovani sono emigrati dal sud dal 2002 al 2020, di cui il 30% laureati” afferma lo Svimez.
Lacrime versate nella consapevolezza che quel filo della memoria che unisce terre e uomini, stavolta si spezza. Che all’arrivederci subentra l’addio, che al trasferimento (con la speranza di tornare) si sostituisce l’abbandono (figlio della necessità di costruirsi una vita altrove).
L’impressione è che politica e Istituzioni per decenni abbiano subito – e non governato – questa dinamica socio economica. Oggi la Regione Campania tenta di arginare lo spopolamento delle aree interne ipotizzando lo spostamento di migranti laddove prima c’erano italiani. Agendo quindi sulle conseguenze del fenomeno.
Il concetto è stato pubblicamente spiegato dall’ex Prefetto Mario Morcone, assessore regionale a Sicurezza, Legalità ed Immigrazione. Morcone ha parlato il 10 gennaio in Prefettura a Salerno. Loccasione è stata la presentazione del progetto ‘FAMI (Fondo Asilo Migrazione Integrazione) – L’inclusione Oltre’.
Salerno, città di sbarco, convive con il fenomeno dell’immigrazione da Paesi terzi.